Il rigore contrappuntistico della “scuola romana”, la leggerezza immediata delle canzoni alla moda suonate sulla chitarra, il virtuosismo fulmineo e la grazia galante e melodiosa: questi sono i colori che dipingono il grande affresco sulla città eterna. Partendo dalla fine del ‘500 fino ad arrivare al ‘700 autori come Lorenzino, Kapsberger, Valdambrini, Zamboni, che si firmano orgogliosamente con l’aggettivo “romano” accanto al proprio nome, si dimostrano, pur nelle loro caratteristiche individuali e specifiche, accomunati da uno stesso spirito compositivo, fatto di densità, rigore, maestosità e schiettezza espressiva. Per capire la musica romana dobbiamo guardare la città: le numerose chiese, la maestosità dei ruderi della civiltà antica, perfettamente inseriti nel tessuto urbano e nella stratificazione dei secoli, gli enormi spazi verdi, la generosità della luce, il colore dei palazzi, la limpidezza abbagliante del cielo… Tutti questi elementi, la commistione tra barocco a età romana, fanno si che i vicoli del centro storico siano lo specchio esatto della gravità del contrappunto unita alla limpidezza melodica delle voci. Ricchezza, solennità e leggerezza ironica sono le basi su cui la scuola romana si forma. E così dal rinascimento fino al barocco, seppur con le peculiari caratteristiche dei differenti stili, possiamo ritrovarvi sempre questo codice basilare: solennità, gravità e leggerezza sorniona e scanzonata. L’arciliuto e la chitarra, strumenti principi del barocco, rievocano queste facce, questi volti eterni che han passato i secoli senza mai invecchiare perché da sempre antichi, restituendo i suoni perduti di una città che ancora oggi, forse in maniera più soffusa e nascosta, si rispecchia in essi.
Simone Vallerotonda: Arciliuto